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Monday, 27 May 2013

Quella forzuncola referendaria

“Non voleva lasciarsi prendere dallo squallore dell'ambiente, e per far ciò si concentrava sullo squallore dei loro arnesi elettorali - quella cancelleria, quei cartelli, il libriccino ufficiale del regolamento consultato a ogni dubbio dal presidente, già nervoso prima di cominciare - perché questo era per lui uno squallore ricco, ricco di segni, di significati, magari in contrasto uno con l'altro. La democrazia si presentava ai cittadini sotto queste spoglie dimesse, grigie, disadorne; ad Amerigo a tratti ciò pareva sublime, nell'Italia da sempre ossequiente a ciò che è pompa, fasto, esteriorità, ornamento; gli pareva finalmente la lezione d'una morale onesta e austera; e una perpetua silenziosa rivincita sui fascisti, su coloro che la democrazia avevano creduto di poter disprezzare proprio per questo suo squallore esteriore, per questa sua umile contabilità, ed erano caduti in polvere con tutte le loro frange e i loro fiocchi, mentre essa, col suo scarno cerimoniale di pezzi di carta ripiegati come telegrammi, di matite affidate a dita callose o malferme, continuava la sua strada.” ― Italo Calvino, La giornata d'uno scrutatore

Tanti. Pochi. Insufficienti. Lapalissiani. Al di là della diatriba sulle quantità – che non rivela altro che la volgarità del dibattito generato dai media mainstream - cosa rimarrà di questo contestatissimo referendum sui fondi pubblici alla scuola privata?


Ho formulato questa domanda tra me e me ieri, quando nel ruolo di osservatrice battevo le stanze d’ospedali pubblici e privati bolognesi per assicurarci che coloro che desideravano votare potessero farlo, fossero essi allettati, ciechi, intubati o semplicemente disinformati. Così, mi sono resa conto che dove aleggiava la disinformazione, la malattia, la disabilità, aleggiavano anche gli avvoltoi. Ma non voglio qui descrivere l’angoscia e i dubbi etici che ha tanto bene descritto Calvino esattamente 60 anni fa. Leggete lui, non leggete me.

Piuttosto, preferisco interrogarmi sulle conseguenze di questo referendum. La prima risposta arriva oggi, quando le parole, le domande e gli incontri di ieri cominciano a sedimentarsi. La risposta ha iniziato a coagularsi a partire da sensazioni personali appena accennate, come il fatto che - dopo 16 anni vissuti a tempo pieno in questa città - solo da ieri ho l’impressione di cominciare a capirla. Solo da ieri comincio a chiedermi se non ne faccia parte anch’io a pieno diritto.

Ieri ho colto gli echi di una memoria civica collettiva nei ricoverati che dalle 7 di mattina aspettavano con (poca, a dire il vero) pazienza l’arrivo del seggio mobile; delle ipovedenti che mi chiedevano dove fosse la “A” sulla scheda, perché loro “avevano cresciuto tutti i figli alle scuole pubbliche”; dei ricoverati bolognesi che ostentavano la possibilità di “votare per la scuola” agli occhi dei compagni di camera che bolognesi non erano. E – perché no? – anche nella propaganda pro-B esposta negli ospedali religiosi.

Questa memoria civica veniva condivisa con me – che di radici bolognesi non ne ho – finché percorrevo i corridoi del Sant’Orsola, di Casa Toniolo, del Bellaria e altri istituti di cura. Non che il nostro passaggio non fosse talvolta accompagnato da scrollate di spalle verso “la politica”. Ma  poi c’era anche chi ringraziava coloro che portavano “la Politica” sotto forma di schede e improvvisate cabine elettorali.

A Bologna, ieri 26 maggio ho provato una sensazione di forza sconosciuta. Non era la forza mista a sensazione di “avercela fatta”, quella che ho provato quando ho visto i miei sforzi lavorativi premiati con un lavoro dignitoso. Non era nemmeno la forza che ho imparato a tirare fuori per accompagnare le persone amate nei momenti più bui.

Più che di una forza, si potrebbe dire si trattasse di una forzuncola, dimessa e sussurrante, quasi solo accennata, timorosa di essere zittita a ogni passo dalla voce di una tv che riportasse dei ricavi milionari di un faccendiere o riferisse dei battibecchi tra ministri dello stesso Governo. Una forzuncola di un azzurro chiaro chiaro, quasi trasparente, come il telo di carta zucchero che portavo con me per proteggere il voto dei pazienti dagli sguardi indiscreti. Una forzuncola che spariva tra i marosi di chi diceva di non essere interessato a votare, e riappariva a ogni scheda votata che laicamente riponevamo nella busta stropicciata che fungeva da urna.

Fino a che mi scoprii a pensare che quella forzuncola non era poi così dimessa, timorosa, chiara e pronta a scomparire. Quella forzuncola stava crescendo a ogni scheda, a ogni corridoio, a ogni nuovo ospedale. Non perché fosse diventata essa stessa una forza, ma perché a ogni voto la sua esistenza veniva ribadita. Ogni volta che quella vecchia matita copiativa del 1963 passava da una mano all’altra, ogni volta che un nuovo documento veniva registrato dal presidente di seggio nel registro dei votanti, ogni volta che un voto veniva schermato, ogni volta che un segno veniva apposto su una scheda, ogni volta che quella scheda veniva ripiegata in segreto prima di imbustarla – ogni volta che tutto questo avveniva, la forzuncola riaffermava la sua esistenza sul disincanto, sul cinismo approfittatore, sui discorsi per cui il problema fondante della Repubblica sono il numero dei parlamentari e i loro dispendi.

Per questo, la prima sensazione leggendo i giornali e ascoltando la radio stamattina è stata di spaesamento. “Fallito il referendum”, “Solo un bolognese su tre alle urne”, “Ecco il referendum inutile”: titoli che mi hanno fatto chiedere se i media non stessero parlando di un altro referendum, in un altro paese, in un’altra realtà. “Ma come, e la forzuncola? Non l’hanno vista i giornalisti? Ma come è possibile che non l’abbiano riconosciuta!?”, mi son trovata a chiedermi.
Con il passare della giornata e dei titoli mi sono dovuta fare una ragione che no: giornalisti, redattori ed editori la forzuncola azzurra proprio non erano riusciti a riconoscerla! Avevano visto le cifre, i conti, le polemiche, ma la forzuncola proprio gli era passata sotto il naso inosservata!

Allora ho capito che non era la forzuncola a essere dimessa e timorosa: siamo noi che non riusciamo a vederla perché i nostri occhi vengono subito attratti da ciò che è “pompa, fasto, esteriorità, ornamento”. Quella che a me appariva una “forzuncola” – la Democrazia agita – in realtà appare dimessa finché non la sappiamo riconoscere, e finché non crediamo che il nostro mondo senza di essa sarebbe molto più difficile. Essa verrà riaffermata ogni volta che un improbabile gruppo di cittadini si convincerà di poter davvero indire un referendum, ogni volta che ci sarà qualcuno disposto ad alzarsi la domenica presto per portarla in scena, ogni volta che una votante deciderà di fare una croce anche se sa di non poter fare la differenza.

PD vota Rodotà
Courtesy GRR Rai
In modo uguale e opposto, quella forzuncola verrà zittita ogni volta che una testata giornalistica ricondurrà lo sforzo altrui a un nulla di fatto, ogni volta che un rappresentante della collettività deriderà i beni comuni e chi si spende per riaffermarli, ogni volta che un cittadino rinuncerà a votare perché “tanto non fa alcuna differenza e il Sindaco ha già detto che nulla cambierà”.

Anche questo è ciò che è rimasto del referendum: lo sfrido tra l'arroganza di chi si limita a conteggiare risultati e la forzuncola wittgensteiniana di chi non può non costruire processi.
Attenti, Repubblica, Corriere, CEI e pure Sindaco, perché il vostro gioco è pericoloso, e forse nemmeno ne siete consapevoli. Le persone che hanno votato ieri – un bolognese su tre – nel vedere grottescamente delegittimato il proprio voto potrebbero credervi, e convincersi che la democrazia non paga. E allora vi sfideranno a dire che “solo” un italiano su tre preferisce la piazza all'urna.

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